È piuttosto evidente che se Tarantino non avesse intrapreso la professione del regista sarebbe sicuramente diventato un calzolaio o un podologo. La sua ossessione feticista in questo film raggiunge livelli magistrali, con un punto di vista dal basso verso l’alto che trasforma il voyeurismo in arte. Gli stivaletti scamosciati di Brad Pitt sono iconici, proprio come lo erano le scarpe e la tuta gialla di Uma Thurman in Kill Bill.
Quella di Quentin è una favola, un’ipotesi di realtà affascinante che piacerebbe a tutti, una gradevole realtà alternativa, un omaggio al cinema e alla televisione. Le citazioni si sprecano, sono distribuite a piene mani, da Batman, a Romeo e Giulietta di Zeffirelli, da Dennis Hopper a Sergio Corbucci, da Walt Disney allo stesso Roman Polansky. È come un bel matrimonio con qualcosa di vecchio, qualcosa di inventato e quel tocco di splatter che non guasta mai. Qualche chicca autocelebrativa non stona, anzi crea un alone di autoironia che mostra un Tarantino più maturo, più desideroso di positività e di valori umani. Ci sono omaggi a Pulp Fiction, Bastardi senza gloria e Kill Bill davvero divertenti. La situazione psicologica di un attore in declino, che sembra sull’orlo di un baratro, è mitigata dallo straordinario rapporto di amicizia che vive con il suo stunt-man Cliff. Margot Robbie abbagliante, Di Caprio perfetto nel suo personaggio scombinato e spaurito, ma che mi ha rubato il cuore è un Brad Pitt che invecchia come il vino, l’ho trovato immenso e magnetico. Il suo ruolo da uomo borderline risulta inspiegabilmente normale, accattivante, familiare. Il suo è uno psicopatico sfavillante che si prende gioco persino di un mostro sacro come Bruce Lee. Insomma Quentin, per me, ha fatto centro di nuovo, anche se era difficile fare un film positivo sulla base di una storia di cronaca nera così crudele, anche se non è il solito Tarantino ma una versione più patinata, un esperimento che è un omaggio al suo cinema, quello che ha tracciato la sua storia.